CILIA Il soprannome deriva dal greco Kilias e vuol significare
pancia, ventre: persona dalla pancia pronunciata, panzutu. Si racconta che
Sigfrido 'e Cilia manifestasse carattere meditabondo, sempre tormentato dal
pensiero a dare soluzione ai problemi che lo assillavano: Era anche appassionato
e puntiglioso giocatore di tressette e briscola. Nel 1945, si dice avesse
partecipato ad un torneo di tressette al bar de' Prìncipi, in piazza castello
e, sembra che la partita decisiva gli fosse sfuggita di mano proprio per colpa
sua. Dopo alcuni mesi Sigfrido, come tanti altri, lascia il paese ed emigra
negli USA.
Passarono 11 anni anni ed il compagno di gioco di quella famosa partita, persa
nel 1945, si vide recapitare una missiva nella quale c'era scritto: " Se avessi
giocato denari, anziché spade, avremmo vinto la partita. Ti abbraccio, tuo
Sigfrido".
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PIDITARA Santavàrvara! esclamavano i vicini di casa quando
sentivano Ttòra pronunciarsi di culo. Le sue emissioni erano boati, terribili
detonazioni fuori dal comune: ecco perché di questo soprannome.
In estate, quando si sedeva davanti porta di casa, i passanti
ripiegavano dalla parte opposta. Ogni tanto, quando spuntava un bambino, Ttora
lo adescava: "A bellu! Vìani cca ca ti dugnu 'a caramella!" e,
Pruuumm! Apriti cielo: "A bellu, Mùndulu e portaliru a màmmata!"
mormorava con enfasi al ragazzo che, già arrìadi 'nculu, sferrava parolacce ed
imprecazioni.
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MARA SAPÌANZIA Peppìnu 'e Mara Sapìanzia. Si racconta che Peppino di Maria Sapienza, era stato un ottimo sassofonista nella banda musicale di S.Andrea. Viaggiando in treno, al ritorno da Catanzaro, si mise a parlare di musica con il vicino di posto che dimostrava interesse e competenza sull'argomento.
" Sentite, che strumento suonavate alla banda? " chiese il compagno di viaggio;
" Il sax " rispose Peppino;
" Che sax, di canto? " replicò il signore;
" Ma quàla càntu, 'u càzzu, io sonài sèmpa 'ntò mìanzu " concluse in tono cagnesco il nostro Peppino.
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'U TÙRCHJU L'ultima incursione turchesca lungo le coste joniche della Calabria avvenne il 14 agosto 1815, a quasi due mesi dalla sconfitta di Napoleone a
Waterloo, e fu proprio sulla spiaggia di S.Andrea che i pirati presero
terra; tutto il territorio della marina fu battuto e setacciato dagli avidi predoni alla disperata ricerca di acqua e di bottino.
L'allarme dal Timpuni della Santineddha, punto strategico per il controllo delle navi che apparivano all'orizzonte diventato toponimo appunto perché le sentinelle andreolesi vi stazionavano a turno per cogliere e percepire tutto ciò che si muoveva all'orizzonte, non fu udito e le campane della Chiesa Matrice non fecero in tempo ad avvisare la gente della condizione di grave pericolo. Nella terribile razzia Domenico Dominijanni fu catturato, imbarcato con la forza su una delle loro tartane e condotto in terre saracene.
Orazio Vitale narra gli avvenimenti di quel giorno così come lui stesso dice di aver sentito raccontare:
" Domenico Dominijanni, giovane quattordicenne...era rimasto in marina per annaffiare gli ortaggi. Durante la notte...i pirati lo catturarono...e via per ignoti lidi. I genitori...attesero invano il piccolo Domenico e lo piansero credendolo morto. Dopo molti anni ...ormai venticinquenne, giunse inatteso vestito alla turca...e da tutti fu costretto a non partire...narrò la sua avventura...fu condotto...a Costantinopoli nel palazzo del sultano. Qui trascorse la sua adolescenza.... sopra una credenza, un giorno osservò alcune pastille conservate gelosamente. Ad un segretario di corte confidò che al suo paese con le pastille si ingrassavano i maiali...Un ministro ordinò di condurre Domenico al suo
paese...acquistare una quantità considerevole di pastille e ritornare a Costantinopoli...Giunto in paese...non fece più ritorno e i pirati, trascorso il giorno e l'ora stabilita per il reimbarco non vedendolo giungere... veleggiarono per Costantinopoli senza il giovane bianco. Domenico Dominijanni da allora fu soprannominato
'u Tùrchiu ".
In tutto l'avvicendarsi ed il susseguirsi di questa particolare avventura esiste solo la verità del rapimento e del soprannome; il resto è solo
'na murgiulata che la storia tramandata oralmente cagiona nel corso delle generazioni.
Domenico, il 14 agosto 1815, era già sposato: come riportato nel registro degli atti di matrimonio del 1814, al numero d'ordine 4, del Comune di S.Andrea Jonio che così scorre: " l'anno milleottocentoquattordici a ventidue del mese di dicembre avanti a noi Bruno Stella Sindaco...è comparso il sig. Domenico Dominijanni di anni venticinque...di professione contadino...figlio maggiore...delli furono Nicola Dominijanni ed Elisabetta Calabretta...è comparsa egualmente la signora Rosa Giannino...di anni venti due di professione travagliatrice...figlia maggiore di Vincenzo Giannino e di Vittoria Monteleone...domiciliati in questo comune...i quali...hanno dato il loro...consenso. Non essendoci stata presentata alcuna osservazione...dopo aver letto tutti i documenti...del codice civile sotto il titolo del matrimonio ...dichiariamo...che Domenico Dominijanni e Rosa Giannino sono uniti in matrimonio ".
Il rapimento avvenne quindi dopo otto mesi dal matrimonio, quando Domenico aveva già ventisei anni e non quattordici. La moglie, rimasta sola dopo pochi mesi , scrisse al sovrano pregandolo umilmente
affinché si interessasse della liberazione del marito, come riportato da G. Valente: " Non doveva essere infrequente il caso di coloro che pensavano di rivolgersi al sovrano, come potrebbe provare la supplica che nell'agosto del 1815 Rosa Giannino, da S.Andrea, rivolgeva al Re di Napoli perché gli riscattasse il marito, Domenico Dominijanni, catturato il 14 di quel mese".
Aradunca, Domenico Dominijanni fece ritorno in paese pochi mesi dopo il suo rapimento e non per interessamento
do' Rre', il quale aveva ben altri brillocchi e cangiurri 'e 'ntrimmara, visto che era già in corso il consolidamento della monarchia Borbonica, ma solo per una serie di combinazioni e di accordi sui traffici marini, tra le "potenze" che ne erano coinvolte, per non avere più i pirati in casa.
Domenico Dominijanni deve la sua salvezza al caso; molti altri calabresi non videro mai più i propri cari e furono lasciati morire come bestie, dopo anni di schiavitù e di lavori forzati.
Ebbe il primo figlio nel 1816 e la sua componente genealogica è tuttora presente in S.Andrea col soprannome:
Tùrchju.
|-----------| BARUNI
(barone) Quasi sempre veniva usato in senso antifrastico, come
espressione eufemistica o ironica per individuare una determinata
persona che, pur appartenendo al popolino, ostentava un
comportamento da signore benestante. Durante le elezioni del 1948 la
campagna elettorale si presentò difficile e lo scontro tra i
gareggianti fu molto duro, durissimo. I diverbi e le liti occuparono
ogni luogo e tutti i momenti della giornata e, più di una volta,
qualcuno assaggiò anche qualche manganeddhata Ai comizi l’aria era tesa e gli oratori
facevano fatica a contenere l’eccitazione dei presenti. Quel
pomeriggio, vicino l’ùrmu, l’architetto Armogida stava
parlando per il Partito Comunista e qualcuno, di opposta fazione, mossijava,
tenendosi a dovuta distanza, perché non condivideva il discorso
imperniato sull’importanza della democrazia in Italia. Mìnica
si era fermata alle tre fontane
per attingere acqua e aspettava, con indifferente apparenza, il suo
turno per riempire ‘a lanceddha a du’ manichi. Indossava
una tuvàgghia ‘e testa di cotone tinto nero, ben sistemata
e graziosamente raccolta nelle sue lunghe pieghe, che gli scendeva
fino a lambire le esili spalle e sulla sottana, dalla cintola in
giù, un faddala ‘e crapicciola scolorito e gruparijatu che
a suo tempo sarà stato anch’esso nero con tasche a toppa di
colore più chiaro. Senza scarpe, si era abbassata vicino ad una
piccola pozzanghera e con movimenti garbati della gamba intingeva ‘u
garruni nella melma e poi lo strofinava con vigore sulla pancia
della lanceddha, tenuta inclinata col fondo per terra e dalla
parte opposta mantenuta dal manico con la mano sinistra. «ànimi ‘ndiavulati;
nemici di Dio,
finirete bruciati nelle vampe dell’imperno. Brutti camionisti!
(comunisti)» Pensava Mìnica. E strica, su e giù
col calcagno, indurito come il sughero, che a forza di strofinare
ridava colore e lucentezza al vecchio contenitore. Le malelingue raccontano che quando l’effetto
del discorso del capolista portò gli animi degli astanti al vàju
dell’eccitazione, Gerardo ‘e Baruni, ‘mpistunatu con
la bandiera rossa a fianco dell’oratore, sull’ abballaturi del
palazzo Jannoni, si era talmente entusiasmato che perse il dominio
di sé e, alzando fino all’inverosimile la già agitata bandiera,
si mise ad urlare con quanta forza aveva in gola: «Abbassa tutti
quelli che vogliàvano che tornava!». Voleva dire: abbasso
tutti coloro che volevano il ritorno del fascismo. Più in la, alcuni bambini senza malizia
giocavano a nichiliponni ed altri mangiavano, indifferenti
agli schiamazzi politici, una enorme fetta di pane e zucchero o di
pane e olio.
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BRIGANTI
(Brigante) : chi, armato, si
da alla macchia per derubare e assassinare la gente. Cattivo
soggetto; persona disonesta e spregiudicata ». E’ con questa
penosa e superficiale definizione, decisamente da rifiutare, che il
Sandron, dizionario fondamentale della lingua italiana, dell’Istituto
geografico De Agostini, Novara, classifica il sostantivo Brigante. Furono per primi i francesi di Napoleone, nel
1799, ad indicare con Brigants, tutte le persone che si
opponevano alla loro invasione. I briganti calabresi, sostenuti e incoraggiati
dalle armate inglesi, insorsero e si opposero alla politica di
conquista dell’imperatore francese. Il successo, però, non
arrivò mai. Traditi e abbandonati dagli stessi inglesi, rimasero da
soli a combattere un nemico determinato, ben organizzato e assetato
di sangue. Il 4 ottobre 1806, l’odio francese si riversò
anche sugli abitanti di S.Andrea ed i rioni si ricoprirono di sangue
e di lutto ; 46 Brigants andreolesi furono trucidati, i
registri comunali e quelli parrocchiali, bruciati. Di coloro che
tentarono di salvarsi con la fuga, alcuni furono ripresi e bruciati
vivi, altri scorticati e appesi testa in giù sul tronco di un
albero, altri ancora, seguiti e sbranati dai cani mastini. Molte
furono le case bruciate e le donne violentate. I 46 "briganti" furono seppelliti nelle
varie chiese distribuite in paese ; una parte di questi, durante la
demolizione della chiesa Matrice, nel 1965, perse la pace del riposo
eterno e finì nella discarica comunale di Faballino, insieme allo
sterro della chiesa e ai rifiuti solidi urbani che allora si
scaricavano in quel luogo. Altri cinque : Caterina Calabretta,
Elisabetta Lamonaca, Nicola Stillo, Giuselle Mongiardo e Nicola
Lamonaca, furono sepolti nella vecchia chiesa di S.Nicola, nei
pressi della Grangia dei Certosini. Quando i ruderi di questa
piccola chiesa furono completamente rasi al suolo, nel 1976, la sua
superficie fu spianata e, ricoperta da un notevole spessore di
calcestruzzo, fu, ed è, adibita a parcheggio pubblico ; ultimo
oltraggio verso i nostri defunti. Di tutto ciò, nel 1997, fu avvisata l’Amministrazione
Comunale e nessuno si é mai adoperato a rimuovere una tale
vergogna; che avvilimento: abbiamo saputo intestare vie e piazze
del nostro paese a personaggi a dir poco sconosciuti, ma non siamo
stati capaci a dare degna sepoltura a chi, per difendere le piazze e
le famiglie del nostro abitato, perse la vita. Ahimè ! Dimenticavo,
loro erano sovversivi, briganti, cattivi soggetti, disonesti, ecc. La vicenda di questi defunti si rivela, ogni
giorno di più, come la storia di un fallimento, un fallimento
civile e culturale che le future generazioni sapranno certamente
valutare e formulare. Commuove, Tommaso Pedio, quando nel suo :
" Brigantaggio Meridionale, 1806-1836, afferma : «
Guerriglieri sono stati qualificati coloro che in Spagna, nel 1808,
si opposero con le armi alle armate napoleoniche e le loro gesta
sono state immortalate nelle tele di Francisco Goya. Patrioti sono
stati considerati coloro che seguirono nel 1809 Andrea Hofer e il
loro canto di guerra è divenuto l’inno nazionale delle
popolazioni tirolesi. In Italia Meridionale, invece, chi nel 1806,
rispondendo all’appello degli inglesi e a quello del proprio
sovrano, si oppose all’invasore, è stato definito e continua ad
essere definito brigante ». Amen.
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GÀRGIA :
Sul significato di questo soprannome ho sentito diverse e differenti
esposizioni. Qualcuno afferma che deriva dalla caratteristica roca,
forte e sforzata della voce; altri, che dipende dal modo di parlare
a voce alta ed eccitata; altri ancora, che fu attribuito ad un tale
che durante una battuta di caccia alla volpe si mise ad urlare così
tanto da farla scappare.
Gàrgia ha, invece, derivazione dal
longobardo Karig (antico alto tedesco Karag) con
significato di Gargo: furbo, scaltro, malizioso, astuto.
«Questa astuzia», mi riferisce Salvatore
Mongiardo ‘e Gàrgia, «è ben documentata dalla leggenda
del forgiaro che non sapeva saldare il ferro perché solo la Sibilla
conosceva il segreto che non svelava a nessuno. Il forgiaro mandò
per il paese ‘u discìpulu che gridò:
“ ‘U mastru mio sardau ‘u zappuni! “
La Sibilla udì ed esclamò:
“ Uh, gatta ci cova! O ‘nterra catta o
rina misa! “»
E il forgiaru, per l’appunto, doveva
dimostrarne non poca di scaltrezza e astuzia quando dall’insieme
di elementi di ferro diversi doveva modellarli, a oltre 700 gradi, e
compattarli ad un pezzo unico a forza di spezzarsi le braccia
battendo con la mazza sull’incudine.
Il primo fabbro arrivato a S.Andrea, da San
Sostene, verso la metà dell’800, fu mastro Vincenzo Mongiardo.
Rùajini, magli, mazze e mezze mazze cantàvanu
a missa alla forgia di mastro Vicìanzu: il lavoro era
tanto e si faceva aiutare anche dai figli.
Un giorno che era particolarmente stanco e i
santissimi gli giravano alla velocità del Firinghiddhu,
si rivolse al figlio Bruno dicendogli:
« O Bruneddhu, mini tu o minu eu?»
Intendendo di tirare il mantice;
«No, tata, Minati vui!» rispose
ingenuamente Bruno;
«E va’ bonu, minu eu !» replicò il
padre che appena finito di parlare cominciò a menare a scrapèdunu
e a gurdara 'e suttamùacchi il figlio, che non aveva capito
l’antifona.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Pasqualino era
tornato a casa per una breve licenza. Prima di ripartire per il
fronte aveva spiegato a Rafelina ‘e Gàrgia, sua moglie, di
come comportarsi in caso di attacco aereo e nella specie se questi
dovessero lanciare gas asfissianti : « mi raccomando, se l’apparecchj
jèttanu ‘u gassu prendi una pezza e bagnala con acqua,
mettila davanti alla bocca e sdraiati panza ‘nterra ».
Il tempo passa e Rafelina non dimentica un
attimo il consiglio del marito. Stava chiacchierando davanti casa
con l’amica Ttora quando dalla Coscia di Stalettì
videro spuntare un aereo militare che non dava tante garanzie. Senza
dire né cùamu né quandu scapparono dentro casa e seguirono
a puntino i consigli di Pasqualino.
« Cummara Rafelina, mi pìardu ! ‘On
risistu ! ».
« Ma jìo mi sciàlu ! » rispondeva
Raffaella.
« Vi dicu ca mùaru, mi vrùscia l’arma !
» insisteva Ttora.
Proprio in quell’attimo la figlia di quest’ultima
entra ‘ntruncu in casa per avvertire del pericolo e vedendo
le due donne sdraiate per terra esclamò : « A ma’, ma chi è
stà puzza? Apariti ‘i franìasti ca ccà si mora ! ». Per
forza Ttòra si sentiva morire: nella fretta di fare le cose
aveva inzuppato la pezza con petrolio mùnditu.
Alfredo Varano varanoal@virgilio.it
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