Dal latino
tardo Tirus, che probabilmente deriva dal greco Therion, con
significato di animale selvatico, belva, serpente velenoso.
«Il Tir -decanta il Pulci - che avea lo
incantatore scorto / acciò che le parole sue non oda / aveva l’uno
orecchio in terra porto / e l’altro s’ha turato con la coda».
Nell’Asia Maggiore era conosciuto come serpe di una
spanna dal quale è detta e fatta la Tiriaca o Triaca, meno conosciuta
come Teriaca, Utriaca, Otriaca. In provincia di Enna la Lacerta Virdis, un
grazioso ramarro, è localmente conosciuta come Tiru.
La Teriaca (dal greco Thériaké, cioè antidoto) è il rimedio per eccellenza che in tempi molto antichi era
usato per combattere i veleni e in particolare quelli iniettati dal morso
di fiere velenose.
Giordano da Pisa doveva essere terrorizzato da questo
tipo di mostro anche se ne vantava gli effetti benefici della Triaca: «la
fine Utriaca, che vale contro tutti i veleni d’ogni serpente, si fa d’un
serpente pessimo che si chiama Tiro ch’abbonda molto in Terrasanta e
specialmente a Gherico».
Secondo la leggenda il famoso contravveleno, chiamato
all’origine “ Mitridato”, fu inventato da Mitriade Re del Ponto e
perfezionato da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, il quale aggiunse,
alla ricetta del Mitriade, la carne di vipera convinto che ne avrebbe
accresciuto l’utilità e le virtù. La composizione subì diverse
variazioni nel tempo: dal filosofo Avicenna morto nel 1073 a Gio Battista
Capello speziale a Venezia nel 1751 e fu usata per circa diciotto secoli,
fino a quasi tutto l’ottocento.
A S. Andrea di tutti questi intrugli, scarìduli e
‘murgiulati(2)
non si è mai
saputo nulla; ma rimase il terrore del Tiru; del mostro invisibile,
spaventoso, che appariva all’improvviso e ingoiava i bambini per
scomparire poi nel buio più nero e profondo.
«Ho paura dei mostri immaginari -scriveva D’Annunzio-
che abitano il buio, dei fantasmi che sono inafferrabili». E anche noi
avevamo paura, terrorizzati dalla presenza continua do’ Tiru che
ci seguiva ovunque, ogni qualvolta eravamo fuori dall’abitato.
Creatura fantastica creata sul modello della tradizione
classica, ‘u Tiru era il deterrente, non sempre efficace, per non
farci allontanare troppo fuori dal paese, specie nelle campagne, per
evitare razzie di mandarini, lattuchi, favi, ficazzani(3)
e tutto ciò che di
buono e commestibile si trovava nelle diverse stagioni. Alla fine degli
anni ’50 i ragazzi tra i 6 e i 12 anni eravamo a centinaia: talmente
tanti che alla scuola elementare si facevano i doppi turni. Il pomeriggio
si trascorreva all’oratorio tra catechismo, campetto di calcio, cinema,
prove di teatro, sale ricreative ecc.
A scuola chiusa e ad attività catechistiche sospese ci
si riuniva in piccoli gruppi e si andava in giro dove capitava, ‘e
matina a sira(4).
Quell’anno Cìccio(5),
con le lacrime agli occhi, aveva disertato il gruppo per andare al
Marchesato, con la madre e le sorelle, a lavorare alla raccolta delle
barbabietole; aveva 12 anni e si guadagnava già il duro pane quotidiano.
In estate eravamo quasi tutti scalzi, alcuni per scelta
altri perché non avevano le scarpe e la sera i carcagni(6)
erano talmente ‘ntajàti(7)
che né sapone ‘e
casa(8)
né lissìa(9)
avevano la capacità di farli rinvenire. A forza d’ attroppicara(10)
e sbattere con le
dita nude sulle pietre delle strade le unghie degli alluci erano sempre scoppulati(11)
e la parte
sottostante piena di pus. Quando il dito diventava giallo e abbuttatu(12)
di materia
suppurativa si perciàva(13)
con una spina di sciòlessi(14)
o con qualche aggèggiu(15)
ben appuntito, si
schiacciava con le dita della mano per far uscire ‘a matèria(16)
e poi si
disinfettava urinando sulla parte malata.
«Se ti tagli o ti scùarci(17),
Pisciatìlu(18),
così ‘on ti
chiùmpa(19)!»
Era questo il
consiglio lanciato dalle nostre madri.
Qualcuno aveva tante di quelle toppe e rinacci(20)
variopinti che i carzi curti(21)
indossati avevano
perso le caratteristiche originali e qualcun altro, quasi sempre senza
mutande, portava i pantaloncini con lo spacco aru culu(22);
pronto a cacara(23)
senza neanche la
briga di spogliarsi. Svuotata la pancia dai residui della digestione
ognuno si puliva con quello che trovava a portata di mano: erba, foglie,
sassi, piccoli rami; al cesso esterno delle case al massimo si trovava,
appeso ad un chiodo fissato al muro, qualche striscia di carta di giornale
tagliata a rettangoli.
Sempre fuori, in giro a Folè, a
Carozza, aru Mastru,
a Uno al Montte, ara Lepra, a Ùassu Mastrùassu, a Zurru-Zurru, a
Ppà-Ppà, ara Sgrozza, ara ‘Mmùccia, aru Lignìaddhu, aru Strumbu, a
Tagghjùali, ara ‘Ndìndula, ari Cciàppi, ara Merca, a d’Animìaddhi,
a Landjùddhi, a Figurìaddhi, ari Carti, ara Murra, aru Palloni, aru
Rùaddhu(24).
Le ragazze, sempre
in gruppi separati, giocavano invece aru Permessu, ari Vici, a Cummari(25).
La sera riprendeva l’intonazione mesta con racconti do’
Papalutu, do’ Lupuminàriu, do’ Zinnapòtamu, da’ Magara, do’
Lupupàmpinu, do’ Turruvìu(26),
nella speranza di
poterci intimorire e farci girare il meno possibile durante il giorno.
‘U Tiru veniva descritto come un animale
terrifico, orrendo; una bestia feroce creduta, nella superstizione popolare, simile ad un serpente di grossa mole con occhi enormi rosso
fuoco e denti appuntiti e affilati capaci di stritolare anche le pietre
più dure. Le storie spaventose e oscure che i più anziani raccontavano
su questo terribile animale incutevano terrore. Si diceva che la sua
abilità migliore fosse quella di prendere un bambino e risucchiarlo,
sollevandolo da terra e da notevole distanza, dentro le sue enormi fauci
per poi ingoiarlo senza possibilità di salvezza.
‘U Tiru do’ Ferraru(27)
aveva scelto come
tana una vecchia caseddha(28)
in pietra, in
bilico sulla trempa(29)
do’ Vaddhunìaddhu(30);
era una piccola casetta di campagna con l’ingresso ad arco ribassato,
mezza interrata e nascosta tra enormi rovi e puddhicari(31).
Ogni tanto un
grosso masso si staccava dalla sua vecchia muratura e rotolava fino al
viottolo sottostante che portava a Macca(32).
Tiresa(33)
‘e Laguni(34)
diceva che quando si ritrovavano grosse pietre in mezzo al vijùalu(35)
significava che il
Tiru, affamato, si era affacciato per controllare se c’erano bambini
da poter mangiare e che quando non ne poteva più dalla fame lanciava
grida impressionanti e girava e sbatteva come impazzito intorno alla
piccola casetta producendo un sibilo acuto e prolungato da far ‘ntassara
‘u sangu(36).
Nel mese di giugno i pumiceddha(37)
erano al vàju(38)
della loro fragranza e squisitezza e Pàvulu(39)
da’ Surdìddha(40),
che aveva un terreno vicino alla tana del mostro con parecchie piante càrrichi(41)
di ottime melette indorate dal sole, quando scorgeva qualche gruppo di
ragazzi aggirarsi nella zona si nascondeva e lanciava versi terrificanti
per farli desistere dai cattivi pensieri, sicuro che prima o poi sarebbero
finiti a riempirsi la pancia nella sua proprietà. Catharini(42)
‘e Verza(43),
che stava ferruzzijàndu(44)
al catùaju(45)
e aveva sentito il grido spaventoso di Paolo, si precipitò di corsa fuori
dalla porta e dopo aver nominato un énculu(46)
di santi e di morti si rivolse, recitando altre suppliche e invocazioni,
ai furracchjùni(47)
che aspettavano,
come il cane da’ guccerìa(48),
l’allontanamento
del padrone per poter leccare qualcosa: «Jativinda(49),
non avete sentito
come grida ‘u Tiru? Non passate il vaddhuni(50)
ca vi tira (vi
risucchia) e vi mangia(51)!»
Nessuno, logicamente, tentò di superare la linea di
sicurezza; ma l’appuntamento con i pumiceddha fu soltanto rinviato.
1)- Tiru: Tiro;
2)- Scariduli e Murgiulati: Purghe e Bibite torbide;
3)- Lattuchi, Favi e Ficazzani: Lattughe, Fave e Fichi;
4)- ‘e Matina a Sira: da Mattina a Sera;
5)- Cìccio: Francesco;
6)- Carcagni: Calcagni;
7)- ‘Ntajàti: Incrostati di sudiciume;
8)- ‘e Casa: di casa, fatto in casa (sapone);
9)- Lissìa: Lesciva, l’acqua residua del
bucato tradizionale. Quest’acqua unavolta si usava per lavare il
pavimento o le parti del corpo (i piedi) più resistenti al normale sapone, grazie al suo potere
sgrassante;
10)- Attroppicara: Inciampare, sbattere;
11)- Scoppulati: Spappolati, screpolati;
12)- Abbuttatu: Gonfio;
13)- Perciàva: Bucava;
14)- Sciòlessi: E’ un cespuglio che produce
spine molto appuntite e resistenti;
15)- Aggèggiu: Piccolo attrezzo, piccolo
oggetto;
16)- Materia: Materia suppurativa;
17)- Scùarci: da scorticare,: ti scortichi, ti
fai male;
18)- Pisciatilu: Urinarci sopra;
19)- ‘On ti chiùmpa: Non ti suppura, non ti
fa infezione;
20)- Rinacci: Punti esterni dati con filo ed ago
per riprendere gli strappi;
21)- Carzi curti: Pantaloncini;
22)- Aru culu: Sul didietro;
23)- Cacara: Cacare, defecare;
24)- Folè…Carozza: Giochi preferiti dai
ragazzi;
25)- Permessu…Cummari: Giochi preferiti dalle
ragazze;
26)- Papalutu…Turruvìu: Animali immaginari,
spauracchio per bambini;
27)- Ferraru: E’ una località del paese;
28)- Caseddha: Casetta rurale, di campagna;
29)- Trempa: Precipizio;
30)- Vaddhunìaddhu: E’ una località del
paese;
31)- Puddhicari: Varietà di pianta a forma di
cespuglio: la Pulicaria;
32)- Macca: E’ una località del paese;
33)- Tiresa: Teresa;
34)- ‘e Laguni: Laguni è un soprannome;
35)- Vijùalu: Viottolo;
36)- ‘Ntassara ‘u sangu: Allibire, raggelare
il sangue per eventi improvvisi;
37)- Pumiceddha: Piccole melette che maturano in
giugno;
38)- Vàju: Al punto giusto, perfetto, della
maturazione;
39)- Pàvulu: Paolo;
40)- Da’ Surdhiddha: Surdhiddha è un
soprannome;
41)- Càrrichi: Stracolmi;
42)- Catharini: Caterina;
43)- ‘e Verza: Verza è un soprannome;
44)- Ferruzzijandu: Armeggiare piccoli lavori,
passatempi;
45)- Catùaju: Seminterrato, magazzino;
46)- Ènculu: Elenco;
47)- Furracchjùni: Giovinastri;
48)- Cana da’ guccerìa: Che aspetta (il cane)
la distrazione (del macellaio)per leccarsi qualcosa. In questo caso ha
significato di coloro (i ragazzi) che aspettano l’allontanamento del
proprietario per potergli rubare le melette;
49)- Jativìnda: Andatevene;
50)- Vi màngia: Vi mangia;
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