Nell’assordante ciùffi-ciùffi di una notte
in treno zio Peppe mi cumpessàu, per filo e per segno, la
singolare e stravagante storia della sua vita.
Cominciò a predicare alla stazione ferroviaria di
Asti, a coddhata ‘e sula, e giogghjàu alle quattro di
mattina quando eravamo già in Campania e avevamo percorso quasi mille
chilometri: io cotto stranghijàtu dal
sonno e lui, novizio protagonista di una novella Boccaccesca, chi s’astutava
nelle ultime audaci e maliziose battute.
Curtu ‘e statura e dai modi garbati zio
Pe’ si dimostrò presto un personaggio carico di vitalità
manifestando, in un misto di dialetto e lingua madre e aiutandosi con la
mimica, una formidabile abilità di comunicare; come quando diceva,
sfiorandosi il pomo d’Adamo, dall’alto in basso, tra l’indice e il
pollice: « Io ‘on’àiu vùazzu », per farmi intendere che
affermava la verità; o quando si portava la punta della mano,
battendola leggermente per due o tre volte, sulle labbra, per farmi
comprendere che alcune parole non le poteva pronunciare per un problema
di etica, ‘e ducazziùani.
‘Ncuminciàu raccontando che da bambino era
stato colpito da una malattia incurabile e che ancora oggi, a 80 anni,
ne era dolente.
Dopo aver “posseduto” tutti gli animali della
masseria, compresa l’asina del pappù ‘Ntoni, il medico non
ebbe più dubbi: erotomania, esaltazione morbosa e ossessiva degli
impulsi sessuali; e dai risalti, colorazioni e intonazioni che dava alle
frasi che scandivano la ricostruzione del suo ‘mpocatu passato
si intuiva, senza dubbio alcuno, la trasparenza e la franchezza di
questa singolare storia. Si, tutto vero, il medico aveva fatto centro;
ma zio Peppe, in cuor suo, non si era mai considerato un vero ammalato,
anzi, secondo lui, aveva sempre goduto di ottima salute. E che salute!
Difficile a credersi; ma il nostro protagonista era
stato proprio così: un incredibile libidinosum incapace di sedare e ‘u
gurda il suo sfrenato desiderio persino di fronte alle tentazziùani
di Cerasella, la giovane scrofa che il padre stava preparando alla
riproduzione e che non era riuscito a “trombarsi” solo perché gli
era mancata la forza fisica di tenerla ferma.
Che dire, vogliamo decidere con sentenza il
comportamento di zzì Pe’ ?
Ma che! Meglio lasciare l’incombenza agli addetti
ai lavori; né possiamo considerarlo alla stregua di Gaetano Santo
Godino, el petaso orejudo, figlio del crotonese Fiore, che i dottori
reputarono pòvuru di mente e imbecille a causa della sua
precocità sessuale ed eccesso di masturbazione. No, no! Per noi si
tratta solo di pilus sacra fames, e basta.
Zio Peppe non era manco ‘nu pàcciu né un
attore o un cantastorie. Le sue rivelazioni non necessitavano
spiegazioni o di essere indagate; si capiva, senza tanto sforzo, che
quella era semplice vita vissuta.
Chi è abituato a viaggiare, a compiere lunghi
percorsi in treno, sa’ bene della parrasìa dei meridionali.
Se sai ascoltare con attenzione e riguardo e
prospettare il tuo punto di vista senza limitarne la libertà d’espressione
e la dignità di chi racconta, il meridionale ti sciorina tutto,
ti comunica e ti regala tutto ciò che gli appartiene. E noi sappiamo
bene che i sentimenti e le situazioni si possono comunicare con la sola
gestualità, le pause, gli atteggiamenti del volto, il timbro vocale
ecc; come faceva zio Pe’.
Quando nànnama mi guardava, anche a notevole
distanza, capivo al volo il significato del suo sguardo e lei, senza
replicare, sapeva di avermi parlato e di essersi fatta comprendere.
Funziona un po’ come il sistema delle casseforti:
entri solo se conosci la combinazione; e questo tipo di parrasuni
lo può esprimere e comunicare solo chi è nato e vissuto dalle nostre
parti, altrimenti fa’ cilecca e diventa incomprensibile a chi è fuori
dal contesto.
« La mia è l’unica malatìa che si cura ficcandu,
altro che medicinali!…ero conosciuto ovunque; quando
arrivavo in piazza, anche nei paesi vicini, la gente mi guardava e
diceva: arrivàu ‘u zzìmbaru ». E ci
credo!
Ma zzi’ Pe’ non ebbe vita facile.
Mentre le donne lo cercavano per farsi consolare, gli uomini facevano
altrettanto per fargliela pagare; ed una volta si prese una bella dose ‘e
chiùmbu senza aver mai saputo chi fu a premere il grilletto.
Mi mostrava orgoglioso le vecchie cicatrici e ci
scherzava sopra: « chi sa’ se è opera di un padre o di un marito.
Alle volte, i peccati del Ca… si pagano cari e amari. Avevo
tredici anni quando l’arciprete mi trovò chi ma’ cavava,
in una polverosa stanzetta dell’oratorio. Pensavo di stare al sicuro e
andavo e venivo da quel grùpuru quattro - cinque volte al
giorno. Quel pomeriggio mi scoppiava la testa: avevo visto, per la prima
volta e da vicino, com’era fatta la “natura” di una donna: ‘na
tùlupa nìgura più nera del gatto mammuni ‘e patra Vicìanzu.
Oih mamma, stavo sbirrocandu! Vedevo solo
quella “cosa” e nenta cchjù. Matri
mia, matri, che arsione! » Incalzava
zio Peppe.
« Dunque, quando il parroco mi pizzicò, ero al
punto più bello: smarrito e dissoluto nella voluttà. Mi prese con
impeto violento dai capelli e cominciò a muzzicara dappertutto,
peggio di una iena affamata. Mi trascinò poi per il lungo corridoio e
si fermò vicino a un piccolo biliardo, dove prese una stecca e me la
spaccò sulla schiena. Contemporaneamente completava l’opera con paneddhati
che sferrava peggio dell’asino punto da’ musca.
Mi divincolai e gli sfuggii di mano mentre mi trascinava per le
scale, quando ero ormai ridotto come uno straccio; ma l’acciprèviti
non si arrese e mi seguì imbestialito per le vie del paese, senza
peraltro riuscire a raggiungermi.
Mi rifugiai in campagna e vi rimasi per una
settimana: mangiando frutta e, quando mi rescìa, il companatico
sottratto ai contadini che andavano a zappare le terre del marchese.
Quando ‘u tata mi ritrovò mi condusse a casa e mi fece
mangiare e bere vino a volontà; poi mi spinse dentro la stalla e con la
forza mi legò la mano destra su un grosso ceppo di quercia che di
solito serviva per spaccare la legna. Ero paralizzato dalla paura.
Quando l’ho visto afferrare l’ascia ho capito che mi volesse
tagliare la mano: sollevò ‘a ghacci in alto con smodata
violenza e, prima che il colpo arrivasse sul bersaglio, la girò e mi
colpì con la parte opposta al taglio. Chiusi gli occhi e forse emisi,
prima di svenire, l’urlo più brutale e scomposto della mia vita.
Il dito medio, l’anulare e il mignolo rimasero
incollati sul legno, ridotti a una sottile pellicola di carne ‘mpastata.
Al risveglio mi ritrovai a letto, con la mano fasciata e mia zia che mi
asciugava il sudore provocato dalla sopraggiunta febbre».
A questo punto, zio Pe’, cambiò
atteggiamento e il suo volto si incupì. « Già, zia Lia, che dopo la
morte di mia madre, quando avevo sei anni, sposò mio padre per
prendersi cura di me. Mi voleva bene la zia, certo, ma la mamma non può
essere cambiata come si cambia o si sostituisce un congegno o un’apparecchiatura
qualsiasi.
Dopo il suo decesso ho perduto il sollievo del
pianto, la commozione e la gioia; le mie sono state solo e sempre
lacrime asciutte, secche.
A chi rivolgevo più il lamento e i singhiozzi, a chi
urlavo il dolore, le pene, i sogni?
Da quel giorno le mie braccia sono rimaste come
paralizzate, costantemente aperte, nella disperata attesa ‘u si ‘ngruppanu
ai suoi fianchi, e mi illudo e aspetto ancora di poterle serrare in
qualcosa rimasta, ahimè, ferma aldilà del mondo.
Nella coscienza e nell’anima, però, il tempo,
quello scandito dai ricordi, non ha mai sbiadito o invecchiato la sua
immagine. Cambia e si modifica la pelle, il colore dei capelli, gli
alberi, la tecnologia, ma i ricordi rimangono sempre gli stessi:
freschi, lucidi, incontaminati.»
Si fermò e chiuse gli occhi, poi li riaprì e
ritornò al vecchio racconto.
«Dunque, non sapevo ancora che avevo perso tre dita
e il dolore era insopportabile».
« E come andò a finire? », chiesi.
« E come doveva finire! Finì che appena passò il
dolore continuai a pippijàra ca’ mancina e al ritmo di prima
».
E ancora, indorando la pillola: « Mio padre,
comunque, non l’ho mai ritenuto il vero colpevole di tutta questa
storia. Fu esasperato dai conoscenti e più di ogni altro dal parroco,
che imprecava dannazziùani, inferni e castighi per tutta la mia
famiglia.
“ Quel ragazzo còdia le pratiche del diàulo,
vìola cotìdio la parvula purezza cibandosi di turpi penseri, desideri
inconfessabili e atti impuri, spavìantu mio, tacibili. Salva tuo
figlio dal peccato, salvalo! “ E concludeva, mettendoci il carico da
undici, con incomprensibili frasi in latino che nessuno capiva ma che
producevano, comunque, l’effetto desiderato.
E dalli, ancora: « Ho sempre considerato una
vergogna i falsi predicatori morali che accusano di commettere peccato e
di trasgredire i comandamenti divini solo perché si cerca il piacere
attraverso la pratica della masturbazione. E’ una menzogna teologica
per screditare e infamare l’uomo, la sua coscienza e la sua
conoscenza. Una falsità che va’ contro le regole della natura, che
non sono fissate da alcuna legge o autorità ».
Zzi’ Pe’ si affievolì dolcemente e smise
di raccontare quando il treno si mosse dalla stazione di Caserta.
L’avevo conosciuto a Torino Porta Nuova, al binario
16. Stava girando come l’animulu intorno ad un self bar; una di
quelle diavolerie che quando ti approssimi ad usarle, dopo aver letto e
riletto le istruzioni, ti lasciano il dubbio che l’operazione possa
seriamente riuscire. Lui era la’ che osservava a testa ammuntunata
il distributore automatico, come se fosse qualcosa di poco
raccomandabile e incapace di determinarsi all’azione.
« Salute! » Mi disse sorridendo;
« Salve », risposi.
« Scusate, ma cosa bisogna fare per prendere ‘na
gelata?»
« Poco. Basta mettere i soldi », continuai.
« E quanto costa un cornetto? »
« Un euro e venti centesimi », conclusi.
Ma zio Peppe, malfido, guardava la macchina e
arricciava il naso.
« Ma simu certi, certi - certi, che funziona?
» Mi confidò;
Alla fine si convinse, ma non fu facile fargli capire
che la macchina era anche capace di dare il resto. Lo aiutai a
introdurre i soldi e selezionare il cornetto e ad operazione terminata
gli dissi: « adesso prema questo bottone ».
Zio Pe’ eseguì l’ordine: schiacciò con
forza e il gelato sbucò nel cestino sottostante.
« ‘Nculu, comu cotulàu, ed è pure freddo;
però … è meglio si muzzicati prima voi! »
Sprizzò meravigliato zzi’ Pe’; non del tutto convinto che il
gelato fosse vero, vero-vero.
Cuneo, Maggio 2002
Alfredo Varano
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